martedì 28 febbraio 2012

Almeno un po' da ridere


“I libri che mi piacciono di più sono quelli che almeno ogni tanto sono un po’ da ridere. (...) Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però.”

Ogni volta che riprendo in mano la mia copia (ormai, dopo 8 giri intorno al mondo, molto sgualcita) del “Giovane Holden” di Salinger, succede la stessa cosa. Ne leggo qualche paragrafo così a caso, sorrido, ricordo, apprezzo la costruzione della frase, la trovata comica, e prima che me ne accorga sono stato risucchiato dentro e ho già divorato 4 capitoli come niente.
E, come dice lui, non succede spesso.
“Il giovane Holden” è uno di quei libri che posso lasciare lì per mesi e anni, per poi tirarlo giù dallo scaffale e ritrovarmi tra quelle righe come fosse stato il giorno prima. Se questo non fa di un libro un classico, allora davvero non ho capito che cazzo è un classico.
E’ un libro degli anni Cinquanta. I riferimenti sono datati, la storia tocca tematiche, preoccupazioni, mode che ormai sono morte e sepolte. Eppure, 60 anni dopo, il libro parla ancora di noi.
Non so cosa lo renda così scorrevole, così leggibile, così facile da godere. Forse è Salinger, forse la sua creatura, quell’Holden lì che vive e respira anche dopo quasi un secolo, eterno ragazzo dalla parlata sgrammaticata e inconfondibile. Di solito, quando un personaggio è così armonico, viene da pensare sempre all’elemento autobiografico –Holden è Salinger oppure no? Eppure a me non frega niente, e questo è un punto in più per lo scrittore. E’ riuscito a dare vita propria ad un personaggio, così come ha fatto con tutti gli Ackley, gli Stradlater e le Sally Hayes che riempiono quelle pagine.
Forse il trucco è proprio quello: saper far ridere, ogni tanto. Non prendersi troppo sul serio, per farsi prendere davvero sul serio.
Questa, per me, è sempre stata una legge.
Holden, nella sua storia, mischia comico e patetico, buffo e drammatico. Il suo punto di vista distaccato, vivo e vivace ti fa prendere tutto con le pinze, e ci fa vedere noi stessi dal di fuori –cosa che, ritengo, sia l’obiettivo di ogni scrittore degno di questo nome. Il voi è in realtà noi, riflesso nei suoi occhi.
Perchè, pure se suona strano a molti, “Il giovane Holden” è un libro profondamente poetico, che riesce a pennellare e suggerire scene e simboli anche quando ti sembra che la parlata sbracata del protagonista stia sputtanando tutto. C’è un senso dietro ogni parola, dietro ogni piccola strana paranoia di Holden Caulfield, dietro le sue tristezze e i suoi sogni ad occhi aperti, dietro anche quella sua strana mania di voler scoprire che fine fanno le anatre di Central Park quando il laghetto gela d’inverno.
Vorresti anzi, una volta finito il libro, essere amico dell’autore per telefonargli e ridere delle battute, di quella scena al cinema dove Holden sputtana tutto e tutti, di quei dialoghi con la piccola Phoebe, e poi chiedergli pure, ma quelle cazzo di anatre, poi, che fine facevano?
Da lasciarti senza fiato.
Aveva ragione anche in questo.

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