lunedì 22 ottobre 2012

Quello che so fare

il meccanico mi chiede
se so come cambiare
l’olio
l’uomo della banca,
se sono capace di
accendere un mutuo
a tasso variabile

il muratore, come si fa
a tirare su muri eterni
l’elettricista, come
sistemare l’impianto in caso di
black-out

rispondo di no

tutto quello che so fare
è scrivere poesie

e quando lo faccio
abbatto i loro muri
e non ho bisogno delle loro luci
-schizzo dritto verso il
cielo
anche senza
olio.


Marco Zangari © 2012

martedì 19 giugno 2012

Hank '09


guardo gli annunci
scuoto la testa

nessuno cerca un genio-
nemmeno oggi.

strano.

mi verso ancora
da bere.





Marco Zangari © 2009

lunedì 28 maggio 2012

Onora questo foglio



Onora questo foglio

scrivi solo le parole

che vanno scritte



Onoralo e guardati ogni tanto

allo specchio

e guarda il cielo

e guarda le pozzanghere

e guardati le mani

e guarda Dio su di un

tavolo

sporco di vino

alle 7 del mattino



Onoralo e ricorda

che non potrai mai stare dietro

ai tuoi sogni notturni

ai tuoi sogni estivi

alle tue dolci perversioni

alle tue serenate ubriache

a tutte le storie ascoltate

da tutta la gente incontrata

in tutte le strade del mondo

ai tuoi ricordi in camicia di forza

alle pisciate nei campi di rose

alle tue fughe

ai tuoi ritorni

ai momenti in cui ne hai abbastanza

e a quelli che sai

che non bastera’



Onora questo foglio

dicendo solo quello

che vuoi dire tu

-cucina inondata dal sole

i tuoi pensieri sul lavandino a

scongelare



Onoralo

e se puoi

amalo.


Marco Zangari © 2012




sabato 26 maggio 2012

La lezione di Ammaniti

Ho appena finito di leggere “Fango” di Ammaniti. Era un po’ che non trovavo il tempo di leggere, e mi mancava. Mancandomi anche il tempo, avevo bisogno di qualcosa che scorresse veloce, senza troppi problemi. Quel libro andava benissimo per il mio scopo.
Una volta chiuso il libro mi sono alzato, sono venuto qui in cucina, ho acceso il nuovo portatile e finalmente gli ho tolto quella fastidiosa plastica. Avevo promesso di toglierla solo quando mi sarebbe venuta voglia di scrivere ancora.
Mi sono detto un’altra bugia.

O una mezza veritá, se vogliamo. Non é che ho proprio voglia di scrivere, oggi. Peró ogni volta che leggo uno scrittore che non sa scrivere, o che scrive male, mi dico –perché no? Mi dico –ricomincia. Mi dico –é tutto qui, non vedi?
Allora, per quei dieci minuti, posso smettere di fare la corsa su me stesso, smetterla di farmi pressioni per sedermi su questa sedia che mai é stata scomoda come negli ultimi mesi. E questo ovviamente non perché io creda di essere meglio di Ammaniti. Non me ne frega niente di queste gare a chi piscia piú lontano.
So che carte ho in mano, per questo posso stare tranquillo per questi 10 minuti.

Ma poi la tranquillitá passa e m’incazzo, perché mi dico, se sei cosí furbo, com’é che allora non scrivi piú un cazzo? Non é che forse ti piace parlarne e basta? Cosa sono tutte queste scuse che ti sei inventato, cos’é questo blog che hai creato come ennesima fuga?
A questo punto, se siete uno di quei due o tre lettori di questo blog, avrete chiamato giá per un TSO. Darmi dello schizofrenico sarebbe molto facile, e non del tutto errato.
Ma per me é sempre stato cosí: due o tre anime che si prendono a cazzotti, che inventano scuse e poi si sputtanano, che si fanno le peggio cose di nascosto mentre progettano in grande e poi finiscono per impigrirsi davanti ad un tramonto e un bicchiere. Non sono mai riuscito a farle andare d’accordo, e forse questo é uno dei tanti perché al mio scrivere, e anche uno dei suoi obiettivi.

Negli ultimi mesi questo scazzottarsi é stato feroce perché nella mia vita sono successe tante cose, ci sono stati cambiamenti importanti ed io non volevo prenderne coscienza –non perché preoccupato del cambiamento, ma solo perché non me ne fregava niente. Ero diventato un vecchio cinico, scettico su tutto. Ogni passo sembrava inutile.
Poi la Vita, forse per prendermi per il culo in un modo nuovo, ha fatto ripartire i suoi misteriosi meccanismi, e mi sono trovato catapultato in qualcosa che mai avrei immaginato. Ne sono stato risucchiato, e tutto il tempo cercavo di capire questa nuova realtá che mi sembrava irreale, e cercavo di ficcargli dentro questo me stesso che non riuscivo piú a definire.
La scrittura, come sempre, é stata cartina di tornasole di questo scontro di anime, di questo traffico da ora di punta che ho nel cuore, di questo viavai ubriaco che mi gira dietro la fronte. Ho sperato che fosse punto di riferimento stabile in mezzo al tutto che cambiava, ma non avevo capito niente. Lo scrivere doveva cambiare con me, anzi PRIMA ancora di me, e io dovevo stargli dietro e poi notare, tra paragrafi e frasi, i punti riannodati tra le mie diverse anime.

Invece ho provato a ripescare quel vecchio me stesso, che era una difesa contro quello nuovo. Mi sono trovato ostacoli e scuse, e poi mi sono fatto delle pressioni incredibili.
Le peggiori condizioni, per uno che vuole provare a creare.
Soprattutto, ho lasciato che la scrittura scivolasse via dalla mia presa, come un amico caro di cui perdi i contatti e ti riprometti sempre di farti vivo, ma in fondo sai che non succederá.
Ho lasciato l’altro blog a tenere viva questa illusione, mentre dentro di me recitavo requiem e mi trovavo dei piani B per la vecchiaia.

Ma il libro di Ammaniti mi ha riportato qui, al punto di partenza (e certo non per il suo contenuto). Mi ha ricordato che alla fine, che cazzo, é tutto molto piú semplice di come la sto facendo io. Che nello scrivere come nel vivere, é inutile darsi addosso, inutile seguire strade non nostre, inutile forzare quello che non vogliamo fare.
Che tutte e due le cose sono piú naturali di quelle che pensiamo e spesso vogliamo –nel bene e nel male.
Che in tutte e due, ovviamente, e’ sempre il caso di farsi due risate e non prendersi troppo sul serio.

E quindi si riparte (per l’ennesima volta), quindi ci si crede ancora, quindi vediamo come va a finire questa nuova rivoluzione.
Il blog riparte, sempre se non mi internano prima assieme alle mie due o tre anime.

E per il povero Ammaniti, diciamo che i personaggi che crea a volte sono parecchio credibili, che quando non cede alle caricature allora li puoi quasi sentire parlare. In piú il libro é del 1996, e l’editing che gli hanno fatto era agghiacciante. Magari in questi 16 anni ha imparato a scrivere.
Non si puó mai sapere, no?

domenica 8 aprile 2012

Parlare forte e chiaro

Qualunque aspirante scrittore, una volta scelta la storia da raccontare, si trova prima o poi ad un bivio: come raccontarla?
Banalizzando all’estremo, c’è la via facile e quella difficile. O, se siete dei geni della parola, sono tutt’e due facili, e buon per voi.
La via facile è dire quello che pensate gli altri vogliano sentirsi dire, nel modo in cui vogliono sentirselo dire. E’ una via che si rifà molto alle mode del momento, alle tendenze letterarie moderne e classiche, ma non solo. Scrivere in questo modo è, per dirla alla Bukowski, “spacciare parole” piuttosto che creare. Non c’è niente di nuovo, di originale, soprattutto non c’è niente di GENUINO.
Scrivere in questo modo è come mentire.
Fa contenti tutti, però, la maggior parte delle volte. Magari perchè, a furia di voler compiacere, state dicendo delle cose che piacciono. Bene. Non c’è una legge contro una cosa del genere. Cavoli vostri.
Ma c’è la possiblità che stiate facendo tutti contenti tranne uno, cioè voi stessi. Non state esprimendo niente di quello che vi interessa, non state aprendo il vostro mondo. Come quelle uscite di gruppo il sabato sera, che nel momento in cui tornate a casa vi viene da pensare –ma io C’ERO stasera?
Potrebbe anche andarvi bene. Se vi guardate intorno, è pieno di scrittori di questo genere che vengono migliaia di copie. Centinaia e centinaia di pagine nelle quali tutti si possono ritrovare, perchè l’autore sta facendo contenti tutti non dicendo niente. Le stesse parole gli stessi concetti le stesse battute, ripetute ancora una volta. Sono gli stessi che sono sempre pieni di amici (o presunti tali), e con ognuno di loro hanno lo stesso identico rapporto e dicono le stesse cose e un nome vale l’altro.
Sì: la via facile, alla fine, è facile davvero.

Poi c’è quell’altra. Quella che, sì insomma, non basta parlare di cose che gli altri vogliono, ma devi parlare di cose che vuoi TU, nel modo che vuoi TU.
Ovviamente non è tutto qui, anche se già questo necessita una certa dose di coraggio –perchè di trappole di autocompiacimento e di trucchetti ce ne sono in ogni riga. Dire DAVVERO quello che vuoi dire è già un buon inizio, ma non basta.
Fosse così, tutti quelli che tengono un diario potrebbero virtualmente essere degli scrittori in potenza. Grazie a dio, le cose non stanno così.
Una volta scelta la storia e il modo, c’è bisogno di due altri ingredienti ugualmente importanti: il talento e la verità.
Sul talento se ne può parlare per ore, ma il succo è questo: se non siete capaci, lasciate perdere. Tornate al diario di cui parlavamo prima. Ci sarà di sicuro qualcosa che vi riesce meglio, come i massaggi tantrici o le insalate di tonno. Fate quello.
Per la verità, beh, a quella ci possiamo arrivare. E lo so che suona apocalittica come parola, come da giudizio finale. Per verità intendo il modo in cui tenete alla vostra storia. In cui la SENTITE. In cui ogni personaggio è PER VOI vivo e reale, che respira e sbaglia e s’innamora e si deprime e fa una vita di merda proprio come tutti.
Sembrerebbe facile, ma in realtà sono i cazzi peggiori. Perchè se state raccontando quella storia per fare contento qualcuno, per farvi belli delle vostre (presunte) capacità, per passare da scrittori e basta, allora ogni paragrafo sembrerà di cartapesta. Si può quasi vedere lo SFORZO che fate per andare avanti ad ogni riga, ed è terribile. La buona letteratura, quella che ti fa star bene, è quella che sembra nata senza sforzo, con le parole che scivolano via e portano con sè istinti emozioni passioni di quelle vere.
Ecco perchè la vostra storia dovrebbe essere VERA, anche quando parla di cani che si masturbano nello spazio. E’ lo scopo finale della scrittura stessa: dire quello che si vuole dire nel modo in cui va detto.
Come parlare con quel certo amico che sai che capirà.
Ma starà a voi farvi capire. Parlare forte e chiaro, come se state mandando un SOS. Niente ambiguità, niente frasi ad effetti conservate per il finale. Niente trucchetti da quattro soldi, come diceva Carver. Lasciate da parte virtuosismi e sinonimi: se la vostra storia non ha le palle, allora lasciatela lì dove deve marcire, cioè nel vostro cassetto o in una cartella sul desktop.
Non a tutti piacerà quello che avete da dire –anzi, molte volte non piacerà quasi a nessuno (ma di questo parleremo un’altra volta), ma non è questo il punto. Non è per questo che avete deciso di saltare la vostra scopata serale per mettervi al computer.
Non dovete dire le cose che piacciono: dovete dire solo quello che dovete e volete dire. Sentendo ogni virgola, ogni accento, ogni sfumatura del vostro discorso.
Non abbiate paura: se parlerete forte e chiaro, lettori e amici capiranno.
E se non succede, c’è sempre la via facile. Sta a voi.
Così, quando vi appresterete a scrivere la prossima riga, dovrete pensare: per chi lo sto facendo?
C’è solo una risposta giusta.

giovedì 22 marzo 2012

Bravi ragazzi il cazzo

Non ho mai sopportato quelli bravi. Sì, insomma, quelli precisini, puliti, sistemati, che dicono le cose giuste, che fanno le cose che vanno fatte. Non sono così, e nemmeno m’interessa la gente così. Quando uno è definito “bravo ragazzo”, è già morto. Non spaventa, non provoca, non può creare danni. E’ innocuo.
Inutile.
Cos’hanno da raccontare, i bravi ragazzi? Di cosa parlano, come riempiono le loro giornate? Cosa raccontano ad un amico che non vedono da tempo? Cosa raccontano a sè stessi allo specchio, dopo anni da bravo ragazzo? E come il mondo si renderà conto della loro presenza? Resterà solo una scia di rifiuti organici, bollette pagate e foto noiose.
I casinisti, quelli che non ne azzeccano una, sono loro i rivoluzionari. Sbagliando ci portano avanti, ci indicano una strada che mai avremmo pensato.

Allo stesso modo, non sopporto chi considera la scrittura come un congegno preciso, come un santuario da tenere pulito e sgombro da miscredenti. Non sopporto chi la tratta come una di quelle macchine nuove nuove, con quell’odore ancora dentro, che hai paura pure a portarle in giro per paura che si becchino qualche graffio, o che si sporchino. Immagino che i Baricchiani, quelli che vanno alla sua scuola pagando rette poetiche, girino con spider fiammanti e berline immacolate. A me non interessa, su quelle macchine non salirei nemmeno pagato.
La mia macchina ideale è di quelle vissute, piene di botte, con mille difetti che conosciamo e che ormai ci siamo quasi affezionati. Con robaccia sui sedili dietro e qualche cd sfuso nel cruscotto e il sedile sempre regolato male. Eppure, solo quella macchina sa portarci dove vogliamo.

Lo stesso, la mia macchina è senza benzina per ora. Magari è solo un guasto al motore e sono troppo pigro per portarla a riparare. Il punto è che ogni tanto vengo qui, mi siedo, provo ad avviare il motore ma esce solo del fumo nero come scorreggia dallo scappamento e si sente rumore come di una vita spanata, e alla fine il silenzio. Niente paura, è successo altre volte, specie quando mi metto al volante scarico, stanco, senza troppe idee. Ogni tanto mi dico che uno deve aspettare il momento, ma se il momento non arriva mai? Se non arriva mai IN GENERALE? I grandi scrittori erano quelli che s’inchiodavano il culo alla sedia anche quando non gl’andava. Questione di disciplina. A me sono mancate le basi.

Poi, per peggiorare le cose, mi sono messo nei guai da solo. Un romanzo, e neppure il primo. Che poi uno penserebbe che dopo il primo dovrebbe essere più facile. Quello che impari, invece, è solo come NON dovrebbe essere scritto un libro. Per la parte costruttiva, ripassare più tardi grazie.
E adesso questo romanzo mi pesa sul gozzo mentre le piogge rendono l’aria calda e irrespirabile e il ghiaccio nel bicchiere tintinna come risata di ragazza. Mi sono persino dato una scadenza –che è tutta da ridere, per uno sempre in ritardo. Ma mi serve psicologicamente per poter rimandare. In quello sono un dio.

Domani salirò in macchina, il motore si avvierà e mi farò uno di quei giri notturni, solitari, che solo io conosco. Me lo dico ogni giorno. Vi tengo aggiornati se succede oppure no.
E non fate troppo i bravi ragazzi, perdio.

sabato 10 marzo 2012

Poesia e’ una donna che tutti si vogliono fare, ma senza poi doverla richiamare

Sere cosi’
con l’ispirazione andata a
puttane

Poesia e’ una bellissima donna
che tutti da giovane
vogliono sposare

Nemmeno quando la vedi
con chi non la merita
ti dai per vinto

Ha attraversato i secoli
vuoi che non torni da me?

Poi capisci
che non puoi star sempre dietro
a quei capricci
quegli occhi
quei suoi assoluti
quelle vastita’

Sere cosi’
quando ne hai abbastanza di
starle dietro
e resti nella sera
a fissare infiniti
con cose da fare e lei
che aspetta sveglia

Meglio sarebbe dormire
meglio ancora andare a scopare

Sere cosi’
quando pensi che
I grandi poeti
non si sono mai sposati

Ma sposati, forse,
lo sono stati sempre

Comunque sia
ti amo.


(Marco Zangari 2012)

martedì 28 febbraio 2012

Almeno un po' da ridere


“I libri che mi piacciono di più sono quelli che almeno ogni tanto sono un po’ da ridere. (...) Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira. Non succede spesso, però.”

Ogni volta che riprendo in mano la mia copia (ormai, dopo 8 giri intorno al mondo, molto sgualcita) del “Giovane Holden” di Salinger, succede la stessa cosa. Ne leggo qualche paragrafo così a caso, sorrido, ricordo, apprezzo la costruzione della frase, la trovata comica, e prima che me ne accorga sono stato risucchiato dentro e ho già divorato 4 capitoli come niente.
E, come dice lui, non succede spesso.
“Il giovane Holden” è uno di quei libri che posso lasciare lì per mesi e anni, per poi tirarlo giù dallo scaffale e ritrovarmi tra quelle righe come fosse stato il giorno prima. Se questo non fa di un libro un classico, allora davvero non ho capito che cazzo è un classico.
E’ un libro degli anni Cinquanta. I riferimenti sono datati, la storia tocca tematiche, preoccupazioni, mode che ormai sono morte e sepolte. Eppure, 60 anni dopo, il libro parla ancora di noi.
Non so cosa lo renda così scorrevole, così leggibile, così facile da godere. Forse è Salinger, forse la sua creatura, quell’Holden lì che vive e respira anche dopo quasi un secolo, eterno ragazzo dalla parlata sgrammaticata e inconfondibile. Di solito, quando un personaggio è così armonico, viene da pensare sempre all’elemento autobiografico –Holden è Salinger oppure no? Eppure a me non frega niente, e questo è un punto in più per lo scrittore. E’ riuscito a dare vita propria ad un personaggio, così come ha fatto con tutti gli Ackley, gli Stradlater e le Sally Hayes che riempiono quelle pagine.
Forse il trucco è proprio quello: saper far ridere, ogni tanto. Non prendersi troppo sul serio, per farsi prendere davvero sul serio.
Questa, per me, è sempre stata una legge.
Holden, nella sua storia, mischia comico e patetico, buffo e drammatico. Il suo punto di vista distaccato, vivo e vivace ti fa prendere tutto con le pinze, e ci fa vedere noi stessi dal di fuori –cosa che, ritengo, sia l’obiettivo di ogni scrittore degno di questo nome. Il voi è in realtà noi, riflesso nei suoi occhi.
Perchè, pure se suona strano a molti, “Il giovane Holden” è un libro profondamente poetico, che riesce a pennellare e suggerire scene e simboli anche quando ti sembra che la parlata sbracata del protagonista stia sputtanando tutto. C’è un senso dietro ogni parola, dietro ogni piccola strana paranoia di Holden Caulfield, dietro le sue tristezze e i suoi sogni ad occhi aperti, dietro anche quella sua strana mania di voler scoprire che fine fanno le anatre di Central Park quando il laghetto gela d’inverno.
Vorresti anzi, una volta finito il libro, essere amico dell’autore per telefonargli e ridere delle battute, di quella scena al cinema dove Holden sputtana tutto e tutti, di quei dialoghi con la piccola Phoebe, e poi chiedergli pure, ma quelle cazzo di anatre, poi, che fine facevano?
Da lasciarti senza fiato.
Aveva ragione anche in questo.

martedì 7 febbraio 2012

Normale in maniera diversa

Per la maggior parte, dò ragione alle cose dette nel post di Quell’altro lì. E non potrebbe essere altrimenti, visto che sono io che le ho scritte. Però, anche se le ho scritte io, le avete pensate voi. Ammettetelo, su.
Tutto vero quello che dice, tranne sul PERCHE’. Io so perchè lo faccio –o almeno, lo sapevo.
Potrei dire una di quelle cagate da film, del tipo che lo scrivere mi è sempre venuto naturale, che ce l’avevo nel sangue, che lo SENTIVO e via di questo passo.
Infatti è proprio quello che dico. Lo scrivere è stato per me tutte quelle cose.
In generale, lo è anche adesso. Ma non parliamo di ora, non mi va.
Parliamo di prima.

Scrivere è stato qualcosa a cui non avevo pensato. Ero molto confuso, allora. Certe cose non sono cambiate.
Sapevo però che c’era dell’altro. Era un gioco tra i giochi, se vogliamo, ma in quel gioco ci vedevo qualcosa di me che gli altri non vedevano –anzi, che non vedevo NEANCH’IO. Non sapevo cos’era. Non amavo dare un nome alle cose, ed è lo stesso anche ora.
Qualunque cosa fosse, accompagnava da lontano quell’incidente a catena che è stata la mia crescita. Le auto si accatastavano tra rumori di ferraglia, vetri rotti ed incredulità generale. Non capivo molto di quello che mi circondava, e questo mi faceva sentire come se partissi qualche metro indietro mentre tutti erano pronti alla partenza. La Versione dei Fatti che mi raccontavano non mi convinceva; di conseguenza, non avevo niente a cui appigliarmi.
Il dolore che Quell’altro lì dice che fingo, lo provai davvero quando capii che ero diverso. O meglio: a me non importava niente di essere diverso, anche perchè ovviamente non mi sentivo così. Io ero io, basta. Erano GLI ALTRI che mi ci facevano sentire. Quei metri più indietro che tornavano su tutto, e mi facevano girare col fiatone per cose che non avevo mai desiderato.

Questa diversità non era omologata ad altre diversità. Non appartenevo a nessuna minoranza, non vestivo in un certo modo, non rientravo in una moda –per quanto “alternativa” o di nicchia. Ero io, con tutti i cazzi che ciò comportava.
Sapevo che non molti ragazzi passavano il tempo libero a leggersi “La Divina Commedia”, ma questa rientrava fra le cose che mi facevano sentire in ritardo su tutti gli altri. Quello che avevano da offrire i Gruppi non mi interessava. Alla Fede avevo rinunciato da tempo. La politica mi sembrava affascinante e vuota. Lo sport mi divertiva, ma di certo non era una mia priorità. La musica, beh quella sì che c’era, e parecchia.
E i libri, ovviamente.
Nei libri trovavo gente che parlava la mia lingua, che soffriva il mio disagio, che rideva e piangeva e potevi sentire le risate e assaporare le lacrime, potevi scoprire mondi, potevo finalmente sentirmi normale.
Dal leggere allo scrivere il passo è stato breve, brevissimo, nemmeno c’è stato. Una cosa ha sempre accompagnato l’altra.
Un fiume di parole ed io ci nuotavo dentro nudo e, finalmente, spensierato.

E così non ho cominciato a scrivere per diventare scrittore, non pensavo ai libri o alle pubblicazioni, non pensavo a niente, solo a far parlare la mia diversità. Scrivevo perchè ero diverso.
Poi, scrivendo, ho capito che non aveva nemmeno senso parlare di diverso o normale. Mi ero rinchiuso in una torre nel quale vivere il destino balordo che mi era toccato. Scrivere ha aperto una piccola porta sul retro.
Scrivevo perchè in quei momenti mi sentivo bene. Mi sentivo come se quei metri di svantaggio sulla linea di partenza non ci fossero. Anzi, mentre scrivevo mi sembrava di essere IO, quello in vantaggio.
Mentre scrivevo ero felice, di quella felicità che vedevo in molti quando si facevano la moto, o la loro squadra vinceva il campionato. Era le loro soddisfazioni nel lavoro, i loro piaceri borghesi, le loro discoteche e i loro cinema. Avevo questo, mentre scrivevo. Avevo tutto.

Può sembrare paradossale dire che scrivevo perchè mi sentivo diverso, e poi fare un blog come migliaia di altri. Eppure non ho cominciato a scrivere per essere originale. Nessuno è originale per scelta, quello è solo esercizio di stile e prove tecniche. C’è chi ci nasce, c’è chi ha momenti. Forse la genialità e l’originalità coincidono più stesso di quel che pensiamo.
Io non sono originale. A parte a letto, ho pure poca fantasia. Non m’interessa distinguermi. Non starò certo qui a spiegarmi.
Forse, l’unica mia originalità è quel dolore –che è il dolore di tutti, ma proprio quando diventa tuo, quando lo fai tuo, puoi dire qualcosa di vero, di giusto, destinato a durare.
Scrivere è far sanguinare quella ferita, e allo stesso tempo provare a curarla.

Non sempre, ovviamente. Scrivere è anche fancazzismo, è sollazzo, è divertimento –e se non lo fosse, dio mio che palle, per chi scrive e per chi legge. Se uno finisce per prendersi troppo sul serio, finisce per diventare come un Baricco qualsiasi.
Scrivo anche per far fare due risate.
Magari non in questo post, ma credetemi sulla fiducia.

martedì 31 gennaio 2012

E 'sticazzi

E adesso hai anche il tuo piccolo blog. Wow, bravo. Nessuno ci aveva mai pensato. Come hai fatto a farlo, tutto da solo? Dev’essere stata una fatica, trovare il modello predefinito di Google Blogger, scegliere due colori, schiaffarci sopra un titolo e giocare a fare l’artista maledetto. ‘cidenti.
Minchia, anzi.
E di questa disperazione del non poter più scrivere, ne vogliamo parlare? Ah sì, tragica come poche cose. Neanche fossimo in un’epoca di gente impiccata perchè disoccupata, di colonne greche che crollano e si portano via con sè conti e destini.Ma tu NON PUOI SCRIVERE. Ecco qual’è il problema, ecco di cosa dovremmo leggere.Basta trovarti tra gli altri miliardi di blog tutti uguali, tutti lì a gridare il proprio piccolo ego, a metterlo in mostra sul risvolto della giacca, sulla cappella, in cima al pensiero più illuso e distorto che tu potessi vomitare.
Tutti a dire –io ci sono- e a pretendere una legittimazione in questa loro patetica corsa da chi scorre le pagine col mouse, tra un’occhiata a Facebook e una a Youporn.
Tutti a dire –io sono figo mica gli altri, guarda me, leggi me, segui me. Io sono speciale. Io sono unico. Quello che ho io, non ce l’ha nessuno.
Ma non è solo questione di blog. Tu hai cominciato a parlare di scrittura. Bene, lì è uguale. Le pagine hanno saturato l’universo. Le storie sono state tutte raccontate, le stiamo solo ripetendo con nomi diversi, diversi vocaboli, ma la sostanza è tutta lì. Nessuno racconta più una storia, infatti; l’importante è saper creare un gioco di specchi, un fumo di hashish, qualcosa che dia l’impressione e niente più. Giochiamo sulle parole come colorati affreschi su mura di cartone.Basta scavare un po’ per vedere che non c’è niente.
E non parlarmi di arte, per carità. L’arte non sai nemmeno cosa sia. L’arte che indossi senza che nessuno te l’abbia chiesto, che ti dà il diritto di piagnucolare e rifiutare. L’arte che fa benissimo a meno del tuo piccolo canto solitario, io io io. L’arte che ne ha visti tanti come te, e tanti ancora ne vedrà. Imitatori di altri che hanno tentato di imitare la vita. Masturbazioni di fronte a cornici vuote.
E’ sintomatico che tu abbia messo solo un post, come manifesto programmatico. E’ così che si fa oggi: prima ci si definisce, poi forse si dimostra che si è quella cosa. Tutti siamo artisti per quel motivo. Tutti scriviamo. Sudo freddo quando sento di qualcuno che scrive. Ci siamo, mi dico. 99 volte su 100, è proprio così. E state pur certi che anche loro hanno un blog come questo, da qualche parte.
In un mondo di veri problemi, te ne sei scelto uno di carta. Cazzi tuoi. Assumiti gli oneri di questo privilegio, il privilegio di chi ha una macchia sul vestito mentre gli altri intorno non hanno di che coprirsi. Dici che sei scrittore? Scrivi allora, e non farla tanto lunga. Non venire a romperci i coglioni con le tue storie sull’anima e di dove se n’è andata l’ispirazione, oddio oddio. Non raccontarci palle sul fatto che non sei stato pubblicato. Embè? Anche se fosse, cosa cambia? L’Arte, come la Storia, ti passerà accanto senza nemmeno accorgersi di te. Di te e del tuo canto che tu credi così unico, così originale, e non capisci che le stesse parole e frasi e persino gli stessi paragrafi sono stati mangiucchiati bofonchiati scribacchiati da altri prima e dopo di te.
Parli di scrittura perchè l’hai visto fare ad altri, perchè pensi che sia facile e quindi anche un tordo come te può riuscirci. Non sai nemmeno PERCHE’ lo fai, diosanto.
Ecco cosa dovresti chiederti, prima di venire qui a sviolinarci questo finto dolore che si compiace di sè stesso.
Questo dolore che tu hai voluto scegliere, e che ti pone fuori da quel mondo che pretendi di vivere.
Questo dolore che ti piace così tanto.
Questo dolore, e a te riesce solo la parte di chi sta male, senza nemmeno sapere perchè.

mercoledì 25 gennaio 2012

Ritorno a Big Sur

Un buon punto di partenza è la fine. Da lì può partire tutto.
Alla fine di giorni e anni, ci sono io.
Cosa sia quest’io, è tutto da vedere –sia per me che per voi.
Già, voi: cosa ve ne frega di leggere dei vaneggiamenti di un tizio alla fine? Uno che apre un nuovo blog, come se ce ne fossero già pochi in giro?
Aspetto le vostre risposte. Nel frattempo, in questa insensatezza data da me che scrivo e voi che leggete, proviamo a far finta di presentarci e di volerci conoscere.

Chi sono? Mi chiamo Marco, ho 32 anni e penso di voler fare lo scrittore. Non ne sono molto sicuro. Di sicuro so che se alzo lo sguardo vedo fuori un panorama che non c’entra niente con la Sicilia in cui sono nato, o con la Roma in cui sono cresciuto.
Alla fine dei miei giorni e dei miei viaggi, mi trovo in Australia.
Come ci sia arrivato, o perchè, sono punti che allungherebbero la lista delle cose di cui probabilmente non v’importa. In questo blog non sto parlando di me –o almeno, non in questo modo.
Il punto è: chi non sono? Uno scrittore, questo è chiaro.
Definiamo cos’è uno scrittore. Basta dire che è uno che scrive? Forse. Forse no. Allora deve pubblicare, per essere scrittore? E’ già qualcosa, ma vorrebbe anche dire che TUTTI quelli che pubblicano sono scrittori. Non so voi, ma non me la sento di affermare una cosa del genere.
Magari è qualcosa che uno SI SENTE. Certo, va bene, è vago come concetto. Non è che uno si SENTE scrittore e lo è automaticamente. Fosse così, preferirei sentirmi un pornodivo.

Io mi sono sentito scrittore. E’ successo qualche anno fa. Da allora ho scritto un centinaio di racconti, che ho idealmente suddiviso in due raccolte, “Non sapevamo” e “L’happy hour del suicida”. Ho scritto centinaia di poesie, che si trovano in quaderni dalla copertina di pelle e sui retri degli scontrini. Ho scritto un romanzo, “Latinoaustraliana”.
Niente di tutto questo è stato pubblicato. Nonostante questo, ho continuato a sentirmi uno scrittore.
Ho anche fondato un blog, “Hotel Morgana”, dove continuo a scrivere. Anche in quel caso continuavo a sentirmi uno scrittore.
Non sempre era una bella sensazione. I complimenti mi facevano piacere, ovviamente, ma poi capivo che non bastavano. La vanità mi fotteva certe volte, ma non troppe, per fortuna. Avevo momenti di esaltazione pura, di puro godimento, e altri in cui mi sembrava di essere una scimmia alla tastiera. Mi sentivo dio, e poi solo un bambino rinchiuso in casa mentre gli altri sono usciti a giocare.
Mi sentivo geniale, salvo scoprirmi più indietro rispetto a tutti.
Mi sentivo felice, per poi ritrovarmi per terra anche più di prima.
Così è continuata questa strana danza, questo incontro di boxe falsato della scrittura.
E’ stato un fiume in piena, qualche volta, e qualche volta solo un ruscello. Adesso però sembra solo il letto arido di un fiume.
Sono diventati anche rari i momenti in cui mi va di scendere dall’argine e smuovere i sassi polverosi in cerca di qualche pepita dimenticata, così spesso spengo il computer e lascio perdere.

Il che, in fondo, andrebbe più che bene. La mia sopravvivenza non dipende dallo scrivere. Ho un lavoro, un posto dove stare, una donna. So cosa fare ogni giorno dalle 9 alle 5. Quando arriva il fine settimana ho così tante cose da sbrigare –ed energie da recuperare- che per poter scrivere dovrei trovargli uno spazio a fatica.
Senza la scrittura è tutto molto più semplice. Ti relazioni meglio con gli altri. Parli in maniera più tranquilla. Leggi giornali e a volte pefino guardi la televisione. Muori un po’, ma forse succederebbe comunque.
E poi, diciamoci la verità: il mondo non ha bisogno di scrittori. Come diceva Bukowski, in un’ipotetica società post-atomica, ci sarebbe infinitamente più bisogno di ingegneri idraulici che facciano scorrere bene le fogne che di scrittori. Lo scrittore è socialmente inutile. Una figura annebbiata, piccola, risibile. Antiquata, come un omino in bombetta con dei fogli sotto il braccio. La tecnologia è sembrata venirgli in aiuto, tranne poi sommergerlo in un mare di parole tutte le stesse, di voci che parlano tutte assieme e che dicono poco, sia da sole che in gruppo. Tutto quello che era possibilità, si è rivelato disastro. La democrazia delle idee è diventata dittatura di un’arte che non sa nemmeno se lo è più o no.
Gli agenti immobiliari, i web designer, i parcheggiatori abusivi, sono tutti più importanti degli scrittori. Hanno un peso diverso. Lo scrittore non punge. Non si ubriaca nemmeno più perchè è annacquato, è tutto annacquato.

Quindi potrei andare avanti benissimo senza scrittura. Non sono come Buk, relegato in un ufficio postale. Non dipendo dalla mamma come Kerouac.
E non punto nemmeno alla Gloria Finale. Sono già alla fine, i conti sono stati fatti. Siamo già tutti in televisione, che differenza può mai fare una faccia in più?
Non ho quel tipo di conti in sospeso. Non me ne frega niente.
I soldi? Mi piacerebbe non dover fare un cazzo per il resto della mia vita, ma non credo sia qualcosa che riguarda solo me. Solo che –siamo onesti: quale scrittore può campare solo di quello con cui scrive? I tempi di quei russi e quei francesi col loro lusso e le parole che scorrevano come biglie sono finiti. Adesso lo scrittore vero scrive rintanato in uno sgabuzzino prima che vengano a pignorargli pure il portatile.
No davvero, potrei tranquillamente vivere senza scrittura, COME FANNO TUTTI. Mettere da parte racconti e poesie come testimonianza di un passatempo avuto quando c’erano più capelli e meno bollette. Magari rileggerli, ogni tanto, con un sorrisetto sfottente nel viso appena rasato.

Eppure, ogni volta che spengo quel computer, che mi allontano da questa tastiera, mi sento degli occhi puntati addosso. Divento inquieto, nervoso. Incompleto. Litigo con la mia ragazza, mando tutti affanculo. Sbadiglio. Mi annoio. Discuto di banalità fino a notte fonda.
Potreste dirmi che ho bisogno di una bella scopata, ma mi sa che quel lato è già coperto. Potreste dirmi che sto invecchiando, e sicuramente anche questo è vero.
Però manca qualcosa. Manca fisicamente. Non è diletto intellettuale. Non è un concetto che va detto o si muore. Mi manca sedermi qui come sto facendo adesso, chiudere tutto fuori, mi manca il rumore di questi tasti, le mie dita che si muovono veloci, mi manca il non sentire il sonno o la stanchezza o la sbornia, mi manca quella sensazione di uscire per un po’ dalla tua pelle, uscire dalla tua vita, farla diventare la vita di tutti, mi manca fumarmi una sigaretta sulla soglia di un altro universo e poi spegnerla sotto il piede in uno sperpero di stelle. Mi manca quell’attività così autisticamente solitaria e spudoratamente esibizionistica che è la scrittura. Mi manca essere tutti. Mi manca essere me.

Così ho deciso di tornare a Big Sur per un’ultima volta. Big Sur, oltre ad essere una costa famosa in California e un libro di Kerouac, è anche una casa isolata in cui ho abitato per qualche tempo. L’ultimo posto in cui ho pensato davvero di diventare uno scrittore.
Adesso ci torno per un ultimo drink. Magari, alla fine del bicchiere, capirò quello che già sospetto, e cioè che quel giochetto lì si è inceppato per sempre. Capita.
Magari il giochetto invece riparte.
Magari mi sono fatto solo un bicchiere in un posto che conosco.

In ogni caso, eccomi qui. Ho cominciato dalla fine, e qui siamo solo all’inizio. Non so ancora perchè ho aperto un blog per dire queste cose.
Se anche voi non sapete perchè state leggendo di me e di tutte queste stronzate sullo scrivere, mi sa che ci siamo trovati.
Magari ci si rivede.

Lo Zango